
Meno spesso il testo di celebri romanzi è stato riproposto a fumetti, ma
anche in questo caso il divario tra le peculiarità comunicative dei due generi
ha reso necessarie modifiche il cui risultato è stato spesso una riduzione
parziale e non una trasposizione fedele dell’opera originale, esiste tuttavia
almeno un’eccezione.
Città di Vetro, romanzo di Paul Auster, si rispecchia infatti perfettamente
nella struttura grafica dell’omonimo Graphic Novel nato dai testi di
Mazzucchelli e dai disegni di Karasik. La frequente suddivisione delle pagine
in tre strisce di tre vignette quadrate uguali, che ricorda lo schema dello
“zero per”, consente infatti ai due autori di sostenere, in parallelo con il
romanzo di Auster, una labirintica riflessione sulla natura del linguaggio.
Quando l’uomo abitava ancora l’Eden era suo compito dare un nome a tutto e
grazie alla sua perfetta innocenza l’oggetto e la parola erano intercambiabili,
il significante ed il significato erano cioè indissolubili.
Karasik ce lo dimostra scrivendo sul sentiero che Adamo percorre sotto il
sole, la parola “ombra” invece di disegnare la sagoma proiettata dal suo corpo.
Il peccato originale provoca però il distacco delle cose dai loro nomi e la
caduta dell’uomo si rivela come la storia della sua perdita della lingua
divina.
Nel tentativo di ritornare nell’Eden Peter Stillman segrega il figlio per
impedirgli di imparare la lingua degli uomini e recuperare così quella di Dio.
La reclusione del bambino, che porta lo stesso nome del padre, viene
simboleggiata in una vignetta con una grata di quattro sbarre incrociate a due
a due.
Dopo nove anni Stilmann è scoperto e processato mentre il figlio, ricoverato
in ospedale, impara infine a parlare grazie all’aiuto di una logopedista.
Preoccupato dal successivo rilascio del padre che lo ha minacciato di morte,
Stillman telefona a Paul Auster, credendolo un investigatore privato. L’uomo è
in realtà uno scrittore, omonimo dell’investigatore, che, dopo aver perduto
moglie e figlio, vive immedesimandosi completamente nel detective Quinn,
protagonista dei suoi stessi gialli.
Seguendo tale inclinazione Auster accetta l’incarico di sorvegliare il padre
di Stillmann dopo una lunga conversazione con il figlio.
Questo colloquio trascina Auster nei meandri del distorto linguaggio di
Peter, rappresentato come una continua associazione di oggetti parlanti tra i
più svariati, un grammofono, un cilindro, persino lo zero di una partita a
“zero per”, gioco senza vincitori e pertanto allusivo alla limitatezza della
comunicazione, che richiama come suddetto lo schema della pagina.
La porta di una prigione è del resto il culmine grafico del resoconto di
Peter, una splash page in cui non si riescono quasi più a distinguere gli spazi
che dividono le vignette dalle sbarre della cella.
La struttura della pagina si rivela quindi chiaramente come una metafora
appropriata della vicenda che contiene ed è un tuttuno con essa: come l’uomo è
imprigionato lontano dall’Eden dalla sua lingua, così il linguaggio del fumetto
si rivela a sua volta una gabbia, e Mazzucchelli ce lo indica con la ricorrenza
ossessiva di simboli che si richiamano tutti tra loro, le sbarre incrociate a
due a due, lo “zero per”, la porta della prigione. La cella tuttavia non
rinchiude solo Peter Stillman figlio, il lettore stesso, trovandosi
all’improvviso di fronte al cancello chiuso comprende di essere a sua volta
intrappolato, ed è quindi spinto ad interrogarsi sulla possibilità di
liberarsi.
Paul Auster inizia a pedinare Peter Stillmann con costanza, ma un giorno
improvvisamente lo perde di vista; rimasto senza alcun indizio pensa di
chiedere aiuto al vero Auster, il detective, ma scopre che anche questi è uno
scrittore e che ha un figlio che si chiama Paul.
Al protagonista della nostra storia non resta dunque che piazzarsi davanti
al palazzo del figlio di Stillmann, rimanendo sveglio per settimane senza
allontanarsi mai, per scoprire infine che la casa che sorvegliava è vuota
mentre lui, assente dal suo domicilio per mesi, è stato sfrattato per morosità.
Auster decide quindi di recarsi nell’ex-casa di Stillman e contemporaneamente
la struttura della pagina perde la sua ricorrente simmetria precipitando in una
cascata di vignette irregolari.
Karasik e Mazzucchelli ci indicano così che l’dentità di Auster è
definitivamente svuotata, il suo nome non appartiene più a lui ma ad uno
scrittore che ha ancora la famiglia che lui invece ha perduto, Quinn, il
detective in cui non è riuscito ad immedesimarsi, non è più neanche un
personaggio letterario dal momento che il suo autore ha rinunciato alla
scrittura.
Semplicemente Paul Auster scompare: l’uomo che rinuncia al suo linguaggio
non ritorna verso Dio, ma smarrisce la propria identità così come il lettore,
perduto nel gioco dei riflessi proiettati dal romanzo sul fumetto, dal fumetto
sulle pagine, dalle pagine sulle vignette, dalle vignette su di lui.
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