lunedì 12 ottobre 2015

Maus di Art Spiegelmann


Il fumetto è comunemente considerato un genere di pubblicazione privo di spessore culturale e di valore artistico, idoneo tutt’al più ad avvicinare i ragazzi alla lettura.
Ad alimentare tale pregiudizio secondo Eisner, l’autore americano che più ha segnato la storia del fumetto con le sue opere (Un Contratto con Dio, Dropsie Avenue) e i suoi manuali (Fumetto Arte Sequenziale, Graphic Storytelling) è stato anche: “L’uso delle immagini… Questa è la componente dei fumetti che ha sempre reso difficile considerare questo mezzo di comunicazione come una lettura seria. I critici a volte lo accusano perfino di inibire l’immaginazione”.
Alcuni anni fa tuttavia un’opera ha segnato un’inversione di tendenza, mostrando finalmente ad un pubblico più vasto il fumetto sotto il suo aspetto più elevato ed al contempo ignorato, come uno dei media più potenti ed espressivi, dotato di caratteristiche peculiari esclusive tali da consentirgli di affrontare originalmente anche temi storici estremamente drammatici.
Sarebbe però troppo semplice affermare che ad Art Spiegelman sia bastato parlare in Maus di un “tema impegnato”, della Shoah, per creare il graphic novel (romanzo grafico) che ha dato maggiore visibilità a questo genere di letteratura, bisogna invece osservare attentamente come questo autore ha descritto l’olocausto.
In Maus Spiegelman racconta la sopravvivenza alle persecuzioni naziste dei suoi genitori, Vladek ed Anja, con un’illuminante metafora visiva, raffigurando gli ebrei come topi e i tedeschi come gatti. La ferocia nazista che cancella ogni umanità imponendo la violenza del terrore e dello sterminio come se fosse una legge di natura è perfettamente illustrata davanti ai nostri occhi.
Spiegelman adopera questa metafora nel più assoluto rispetto della realtà dei fatti, senza nascondere nulla, neanche la promessa non mantenuta di non parlare nel fumetto di fatti privati della sua famiglia, come l’arrivismo di Vladek, la sua avarizia o il suo razzismo contro i neri.
Ripercorrendo la vita del padre, Spiegelman usa la metafora degli animali antropomorfi per farci calare nei panni di Vladek, per farci capire che quando si è braccati come topi ogni valore sparisce di fronte alla disperata ricerca della salvezza, anche i rapporti familiari, come capita quando un cugino salva a pagamento Vladek ed Anja, ma non i genitori di lei.
Il procedere del racconto ci conduce sempre più in profondità nell’abisso della disumanità nazista, toccando l’apice con la descrizione della deportazione di Vladek ed Anja ad Auschwitz.
Nel Lager assistiamo ad un episodio che chiarisce più di ogni altro la metafora che regola graficamente Maus: un vecchio topo prova ostinatamente a spiegare ad un ufficiale nazista di essere un tedesco e non un ebreo, e si tramuta in un gatto sotto i nostri occhi.
La metamorfosi efficacemente descritta con due vignette affiancate che presentano il vecchio nella stessa posa, ma con i due volti diversi, è seguita dalla spiegazione di Vladek: “…lì erano anche prigionieri tedeschi… ma per tedeschi quello era ebreo!”. Altre immagini mettono a frutto la metafora visiva di Spiegelman, come quando lo vediamo al suo tavolo da disegno sopra una massa di corpi di topi, l’autore non si sente infatti al riparo da sensi di colpa per avere basato il suo lavoro sull’olocausto ed aver messo suo padre in ridicolo. Spiegelman si confessa quindi ai lettori disegnandosi con una maschera da topo presso un amico psicologo. Di fronte al suo dilemma sul senso della sua opera, sul beneficio che può derivarne ai lettori, Spiegelman ricorda una frase di Samuel Beckett “Ogni parola è una macchia inutile sul silenzio e sul nulla“, ma comprende che anche Beckett per esprimere questo concetto fu costretto a ricorrere alle parole.
Riassumere qui le vicende di Vladek ed Anja Spiegelman non avrebbe reso giustizia all’opera del figlio Art, come invece soffermarsi sul senso della lettura metaforica di Maus, evocando le immagini che più di altre potevano spiegare il motivo della preferenza accordata al fumetto come mezzo espressivo per un'opera sulla Shoah.
Credo che questo motivo risieda nella capacità del fumetto di veicolare insieme parole ed immagini, e di sintetizzarle, in questo caso, in un messaggio universale: nessuno ha il diritto di distinguere gli esseri umani in uomini o topi.

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